I poveri e il Signore (Arthur Rimbaud - 1871)
Recintati tra i banchi di quercia, agli angoli della chiesa,
Che il loro fetido respiro intiepidisce, tutti i loro occhi
Verso lo sfarzoso coro e la cantoria
Di venti bocche sbraitanti cantiche pie;
Annusando come un profumo di pane l'odore di cera,
Gioiosi, umiliati come cani battuti,
I poveri al buon Dio, padrone e signore,
Offrono i loro oremus ridicoli e testardi.
Alle donne piace allisciare i banchi
Dopo il sesto nero giorno in cui Dio le fa soffrire!
E cullano, avvolti in strane pellicce,
Una specie di bimbi che piangono da morire.
I loro seni sporchi di fuori, queste mangiazuppe,
Con una preghiera negli occhi, ma mai pregando,
Guardano malvagiamente sfilare un gruppo
Di birichine con i loro cappelli deformati.
Di fuori il freddo, la fame, l'uomo che gozzoviglia:
Gli piace. Ancora un'ora; dopo, mali senza nome!
- Intanto tutt'intorno geme, grugnisce, borbotta
Una collezione di vecchie pappagorge:
Ci sono i rimbambiti epilettici ai
Quali ieri ci si voltava lungo il cammino;
E, col famelico naso in vecchi messali,
I ciechi che un cane guida per il viale.
E tutti, sbavando sciocca e mendica fede
Recitano l'infinito compianto a Gesù,
Che in alto sogna, ingiallito attraverso pallidi vetri,
Lontano dai magri malvagi e dai cattivi panciuti,
Lontano dai sentori di carne e di stoffe ammuffite,
Farsa prostrata e oscura dai gesti ripugnanti;
- E la preghiera fiorisce d'espressioni ricercate
E le misticità prendono toni pressanti,
Quando, da navate dove perisce il sole, pieghe di seta
Banali, verdi sorrisi, le Dame del quartiere
Distinto, - o Gesù - le malate di fegato,
Baciano le acquasantiere con le loro lunghe dita gialle.
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